Il volto di Campana è oggi quasi un’icona, dovuta a quella sorta di prototipo che è la celeberrima foto del 1910 circa, con i baffi, i capelli ben pettinati a partire da una scriminatura quasi centrale, gli occhi penetranti anche se adombrati da un velo di tristezza e il vestito della festa (giacca, camicia bianca, cravatta). Quasi tutti i suoi ritratti, eseguiti da artisti più o meno famosi, derivano da questo modello archetipico, sono postumi e di significato evocativo, profondo fin che si vuole ma, appunto, solo evocativo.

 Fa eccezione il pregevolissimo olio su tela eseguito dal vero a Firenze nel 1913 da Giovanni Costetti e conservato presso il Centro Studi Campaniani di Marradi, che ha cortesemente concesso il prestito: raffigura Campana in uno dei momenti più sofferti della sua già tribolatissima vita, quello del soggiorno a Firenze per trovare un editore del suo Il più lungo giorno, manoscritto che poi diventerà Canti Orfici. Lo stesso Campana a distanza di tre anni (lettera ad Emilio Cecchi del marzo 1916) ricordava “…Io ero un povero disgraziato esausto avvilito vestito da contadino con i capelli lunghi e un po’ parlavo troppo bene un po’ tacevo. Costetti ci ha il mio ritratto d’allora a Firenze…”.

Dei primi anni ’20 ma relativo ad un episodio del 1916 è il bel dipinto di Bianca Minucci Fabroni che, come le altre opere di questa sezione, è stato inserito qui per il suo fascino evocativo.

Sono poi esibite altre opere d’arte contemporanee realizzate da pittori o scultori che si sono posti di fronte a brani del poeta marradese e hanno cercato, non tanto di rappresentarli, quanto di “tradurli”, mantenendo però intatto lo spirito campaniano. Si vedano qui, a confronto, un’opera squisitamernte astratta ed una figurativa.

La prima è un gres, senza titolo, di Carlo Zauli, l’artista che più di ogni altro, nel Novecento, ha restituito alla ceramica il suo ruolo e la sua dignità scultorea. Molto vicino alla natura per sensibilità, Zauli ha spesso manipolato la terra “assecondandola” e lasciando fosse lei a springionare, senza alcuna costrizione, un fascino primordiale: nascono così i suoi magmi, le sue zolle, le “arate”, i grumi pastosi che semplicemente evocano le rugosità della lava o i giochi che fa l’acqua di mare sulla sabbia della battigia. Di fronte ai celeberrimi versi dedicati a Faenza (... Una grossa torre barocca: dietro la ringhiera una lampada accesa...), Zauli rifugge da qualsiasi rappresentazione veristica e, come lo stesso Campana, chiude gli occhi per andare oltre le apparenze e le sembianze, in un sogno di visionarietà.

Completamente diversa l’interpretazione di Domenica Pieli, pittrice raffinatissima, sorretta da una mano di consumato mestiere oltre che da un’acuta sensibilità. La Pieli colloca il capolavoro di Campana su un drappo e sotto un velo ricamato, indagando ogni piega, ogni sfumatura, ogni trina, quasi con spirito caravaggesco, a ricordarci comunque che non esistono dettagli inutili.

 Alessandro Bassi